Nell’aprile 1945, sempre più isolato e impotente, dopo che il fronte della Linea Gotica aveva ceduto e le forze tedesche in Italia erano ormai in rotta, Mussolini si trasferì a Milano. Il 25 aprile, ottenne un incontro con il cardinale Ildefonso Schuster, che stava tentando di mediare con il CLNAI (Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia) la resa delle forze fasciste, nella speranza di evitare ulteriori spargimenti di sangue. Tuttavia l’indecisione di Mussolini e l’intransigenza delle parti resero impossibile qualsiasi accordo. I comandi delle SS tedesche (generale Wolff), poco prima dell’arrivo del duce, fecero sapere al cardinale di non aver più bisogno di lui, avendo essi nel frattempo stretto un patto separato con gli Alleati (all’oscuro di Hitler) e con uomini vicini al CLN. Appresa da Schuster la notizia, Mussolini si sentì tradito e definitivamente abbandonato anche dai tedeschi, interruppe la discussione e lasciò precipitosamente l’arcivescovado.
Nonostante il parere contrario di parte del suo seguito, Mussolini decise quindi di lasciare Milano. I motivi della decisione non sono del tutto chiari (nei giorni precedenti si era parlato di un’ultima resistenza in un possibile “ridotto della Valtellina”). Vi è chi ritiene che fosse stato concordato un incontro segreto con emissari alleati provenienti dalla Svizzera, ai quali Mussolini si sarebbe dovuto consegnare portando con sé importanti documenti. Alcuni sostengono che se l’intento fosse stato solo quello della fuga, Mussolini avrebbe potuto utilizzare il trimotore SM79 pronto all’aeroporto di Bresso, con il quale alcuni personaggi minori della RSI e parte della famiglia Petacci ripararono in Spagna il 26 aprile. Si è anche supposto che Mussolini, nell’improbabilità di uscirne indenne, volesse a tutti i costi evitare di cadere nelle mani degli Alleati, pur nella consapevolezza che se fosse finito in mano ai partigiani sarebbe stato certamente giustiziato.
Nel tardo pomeriggio del 25 aprile, la colonna di Mussolini partì dalla Prefettura alla volta di Como, per poi proseguire quasi subito verso Menaggio, lungo la sponda occidentale del lago (anziché verso la più sicura sponda orientale, come proposto dal capo del Partito Fascista Repubblicano Alessandro Pavolini).
Mussolini trascorse l’ultima notte da uomo libero pernottando in un albergo del piccolo comune di Grandola, a pochi chilometri dal confine svizzero. Il giorno dopo, Mussolini, insieme a pochi fedeli e a Claretta Petacci, che lo aveva frattanto raggiunto, ridiscese verso il lago. Sulla statale Regina si unì a una colonna della contraerea tedesca in ritirata e alla colonna di Pavolini, che, arrivato a Como in mattinata, aveva subito proseguito lungo il lago.
La colonna venne fermata a Musso alle ore 6:30 dai partigiani della 52ª Brigata Garibaldi “Luigi Clerici” al comando di Pier Luigi Bellini delle Stelle (nome di battaglia “Pedro”). Dopo lunghe trattative, si giunse all’accordo che i tedeschi avrebbero potuto proseguire dopo una perquisizione, mentre gli italiani dovevano essere consegnati. Mussolini fu convinto dal tenente SS Birzer, incaricato di custodirlo dal suo comando poco prima della partenza da Gargnano, a nascondersi su un camion tedesco indossando un cappotto da sottufficiale e un elmetto. Dopo pochi chilometri la colonna venne fermata a Dongo e, durante l’ispezione, Mussolini fu riconosciuto dal partigiano Giuseppe Negri, detto “Biondino”, e subito arrestato dal vice commissario Urbano Lazzaro, detto “Bill”.
Nel municipio di Dongo fu interrogato e in serata, per sicurezza, trasferito a Germasino, nella caserma della Guardia di Finanza. Durante la notte fu ricongiunto con Claretta Petacci e insieme si pensava di trasferirli a Brunate, per poi condurli in un secondo tempo a Milano, ma durante il percorso numerosi posti di blocco convinsero gli accompagnatori Luigi Canali (“Neri”), Michele Moretti (“Pietro”) e Giuseppina Tuissi (“Gianna”) a desistere e a trovare una diversa destinazione. Per questo vennero portati a Bonzanigo e ospitati presso amici.

Questa è l’ultima foto che ritrae Mussolini da vivo
Pochi giorni prima era stato emesso un comunicato del CLN nel quale si esprimeva la necessità di una rinascita sociale e politica dell’Italia, attuabile solo attraverso l’uccisione di Mussolini e la distruzione di ogni simbolo del partito fascista. Il documento era firmato da tutti i componenti del CLN (Partito Comunista Italiano, il Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria, Democrazia del Lavoro, il Partito d’Azione, la Democrazia Cristiana, il Partito Liberale Italiano).
La decisione di dar corso pratico al comunicato fu presa da coloro che detenevano Mussolini nell’arco di poche ore, in un contesto in cui era molto difficile mettersi in contatto con Roma e far riunire il Comitato di Liberazione Nazionale. I partigiani che lo avevano catturato informarono (usando il telefono di una centrale idroelettrica) il comando di Milano, che mandò subito un reparto di partigiani appena arrivati dall’Oltrepò Pavese e alcuni emissari politici (Aldo Lampredi, Pietro Vergani e Walter Audisio).
Secondo Raffaele Cadorna, nell’impossibilità di contattare il CLN, venne presa la decisione che facesse il miglior interesse dell’Italia. Cadorna sosteneva che se Mussolini fosse stato consegnato agli Alleati ne sarebbe scaturito un processo a un intero ventennio di politica italiana, nel quale sarebbe stato difficile separare le responsabilità di un popolo da quelle del suo condottiero. Nel conseguente discredito, l’eventuale sopravvivenza di Mussolini non avrebbe avuto nessuna utilità. La mattina del 28 aprile Leo Valiani portò a Cadorna un ordine di esecuzione a firma del CLNAI, riferendogli che si trattava della decisione raggiunta da Valiani medesimo insieme a Luigi Longo, Emilio Sereni e Sandro Pertini la sera precedente: uccidere Mussolini senza processo, data l’urgenza.
L’esecuzione avvenne il 28 aprile 1945. Mussolini venne fucilato assieme a Claretta Petacci a Giulino di Mezzegra in via XXIV maggio, in corrispondenza del muretto del cancello di Villa Belmonte, a 21 km da Dongo. I tempi e i modi dell’esecuzione furono dettati anche dalla volontà di evitare interferenze da parte degli alleati, che avrebbero preferito catturare Mussolini e processarlo davanti a una corte internazionale.
Nel frattempo a Dongo, un altro gruppo del reparto di partigiani delle Brigate Garibaldi sopraggiunti dall’Oltrepò Pavese fucilava i gerarchi del seguito di Mussolini, tra i quali il filologo Goffredo Coppola (allora rettore dell’Università di Bologna), Alessandro Pavolini (segretario del PFR), Nicola Bombacci (che era stato uno dei fondatori del Partito Comunista d’Italia e aveva successivamente aderito alla RSI), il Ministro dell’economia Paolo Zerbino, il Ministro della cultura popolare Ferdinando Mezzasoma e Marcello Petacci (fratello di Claretta), che si era unito alla colonna a Como nel tentativo di dissuadere la sorella dal seguire Mussolini.
I corpi di Mussolini e degli altri giustiziati furono poi trasportati a Milano, dove arrivarono in serata. In via Fabio Filzi, quando da poco erano superate le 22 Walter Audisio e i suoi uomini vennero fermati a un posto di blocco da sappisti della Pirelli Brusada appartenenti alla 110ª Brigata Garibaldi che volevano ispezionare l’autofurgone in cui erano contenuti i corpi. Al rifiuto di Walter Audisio seguirono lunghi momenti di tensione, risolti solo con l’intervento del Comando generale. I corpi arrivarono così in piazzale Loreto verso le 3 della notte. Vennero scaricati nello stesso luogo in cui il 10 agosto 1944 erano stati fucilati e lasciati esposti al pubblico quindici partigiani (come rappresaglia per un attentato non rivendicato). Sappisti della 110ª Brigata Garibaldi montarono la guardia fino alle 7 del mattino.
La gente accorsa ben presto in piazza prese ad insultare i cadaveri, infierendo su di loro con sputi, calci, spari e altri oltraggi, accanendosi in particolare sul corpo di Mussolini. Il servizio d’ordine, composto di pochi partigiani e vigili del fuoco, decise quindi di appendere i corpi a testa in giù alla pensilina di un distributore di benzina. Ai cadaveri si aggiunse poco dopo quello di Achille Starace (già segretario del PNF ma caduto in disgrazia e privo di cariche nella RSI), fermato per le strade di Milano mentre faceva jogging, e fucilato alla schiena dopo un processo sommario. Passate alcune ore, su pressione delle autorità militari alleate preoccupate per la tutela dell’ordine pubblico, i corpi furono trasportati all’obitorio. Il cadavere di Mussolini fu sottoposto a un’approfondita ricognizione; quello della Petacci fu solo composto in una bara.
L’uccisione di Mussolini e della Petacci e la decisione di esporre i corpi al pubblico ludibrio ricevettero successivamente numerose critiche, anche da parte di esponenti della Resistenza antifascista. Lo stesso Ferruccio Parri, capo del CLN, definì la vicenda “uno spettacolo da macelleria messicana” e Pertini dichiarò: «A Piazzale Loreto l’insurrezione si è disonorata». Ancora oggi alcuni s’interrogano sulla legittimità dell’accaduto e sulle motivazioni che vi condussero. Non è tuttavia possibile esprimere una valutazione univoca e oggettiva, che non tenga conto delle circostanze e del contesto storico. Il solo dato di fatto che si può osservare è che in Italia non fu celebrato un processo giudiziario nei confronti dei gerarchi fascisti paragonabile a quello tenutosi a Norimberga contro il nazismo.
Nell’aprile del 1946 la salma di Mussolini fu trafugata dal Cimitero di Musocco da un gruppo di fascisti del Partito Democratico Fascista, capitanati da Domenico Leccisi. Il corpo fu portato a Madesimo e successivamente alla Certosa di Pavia. Dopo la restituzione alla famiglia, nel 1956, la salma fu traslata nella cappella di Predappio.
La caduta di Mussolini e il timore del risorgere nell’immediato dopoguerra di tendenze neofasciste determinò l’introduzione del reato di apologia del fascismo.